9 Gennaio 2012
Dopo l’adesione del 2004, i paesi dell’Europa Centrale sono stati in parte trascurati, in termini di controllo e verifica del consolidamento delle precondizioni relative sia al primo criterio di Copenaghen, quello politico, sia al terzo, relativo alla capacità di assolvere agli obblighi derivanti dalla adesione anche in termini di poltiiche attuative. I paesi sono stati considerati democrazie mature e funzionanti quando nell’area lo è solo la Repubblica Ceca. La ”crisi” democratica ungherese che si è sviluppata nel corso del 2011 viene da lontano e si rifà a questioni identitarie e culturali ancora aperte ma si compone anche di dinamiche che in realtà interessano anche altri nuovi stati membri e che sono state sottovalutate
Dopo il 2004 l’attenzione nei confronti dei nuovi stati membri dell’Europa Centro-orientale è notevolmente scemata. Tuttavia il 2004 non ha significato né la fine del processo di transizione, né tantomeno il raggiungimento di quella che è definita “membership attiva”. La fase di post-adesione era altrettanto critica di quella di pre-adesione, ma i rischi di un ulteriore stress per sistemi sociali ed istituzionali non ancora consolidati e logorati sono stati sottovalutati, anche dalla stessa UE, come riconosciuto da varie analisi. Nel frattempo l’aumento della pressione dall’esterno, cioè da parte delle istituzioni comunitarie (si possono citate l’acquis per l’area di Schengen, il processo di adesione all’UME, il ciclo budgetario ed criteri di Maastricht, la pressione per la cooperazione nei meccanismi istituzionali europei) e dall’interno, per le crescenti aspettative di un consolidamento sociale (welfare e politiche di coesione) inseguito e rimandato per due decenni, destabilizzava governi già indeboliti causando nel biennio 2005-2006 una serie di crisi politiche.
La crisi del 2008-2009 ha quindi interessato paesi che erano già in crisi di “post-adesione” ed ha rappresentato un doppio shock: non solo si è allontanata la prospettiva della convergenza quantitativa in termini di Pil procapite, ma si è allontanata in definitivamente anche la convergenza qualitativa verso gli obiettivi di Lisbona in termini di un sistema basato su alti livelli di servizi pubblici ed investimenti in capitale umano, visti i vincoli strutturali in termini di risorse disponibili e la crisi sociale montante.
Non sorprende quindi il risultato a prima vista “contro intuitivo” dell’indagine “La Vita nella Transizione” della BERS che nel 2010, ha distanza di 5 anni dalla prima indagine del 2006, ha registrato nei nuovi stati membri un calo (con l’eccezione della Bulgaria) medio del 10% (con una punta del 20% in Slovacchia) nel supporto alla democrazia mentre tale supporto, abbinato a quello verso l’economia di mercato, è salito nell’area ex-sovietica della Comunità degli Stati Indipendenti. Nel 2010 tra i 10 paesi europei emergenti con maggiore supporto della democrazia non c’era nessun nuovo stato membro dell’UE, ma solo paesi dell’area della CSI, la Mongolia e la Turchia.
I nuovi membri dell’UE hanno livelli pressoché uguali di libertà politiche e libertà civili dell’UE occidentale, ma mostrano un ritardo significativo nella partecipazione e cultura politica – un riflesso della diffusa anomia in termini di norme sociali e valori e fragilità nello sviluppo democratico; solo un paese dell’UE orientale, la Repubblica Ceca, può essere considerato una democrazia compiuta. Anche se la democrazia formale e le istituzioni democratiche sono operative nella regione, gran parte della democrazia sostanziale, a dire una cultura politica basata sulla fiducia, è assente. Un fattore cruciale alla base di questa assenza è attribuibile al fatto che la transizione ha prodotto un ampia fascia di elettori scontenti che si sentono perdenti. Un altro problema nella regione è che la politica dei partiti è frammentata, riflettendo un basso radicamento dei partiti e scarsa identificazione da parte degli elettori con questi ultimi.
Il patto tra le élite politiche ed una parte dell’elettorato si era già spezzato negli anni precedenti, quando i sacrifici richiesti dalla fase di pre-adesione in poi hanno continuato a concentrarsi tra i “perdenti” della transizione e non tra i vincenti, portando ad un crollo nella fiducia verso le istituzioni e nella partecipazione politica, ed al fenomeno, esacerbato dopo il 2004, di governi di coalizione deboli e con poca legittimazione a causa del gap crescente di partecipazione democratica. Tuttavia la crisi economica del 2008-2009 ha verosimilmente rappresentato per alcuni paesi anche la rottura del patto tacito tra le élite politiche e le istituzioni europee. In questo patto tacito la rinuncia ad una parte della sovranità nazionale da poco riconquistata era scambiata con un aumento della stabilità e sicurezza economica. La crisi economica del 2008-2009 ha mostrato il contrario: la profonda integrazione economico-finanziaria, costituitasi un ventennio di transizione e nella decennale fase di pre-adesione, tra vecchi e nuovi stati membri ha agito da meccanismo di trasmissione diretta degli impulsi e non da scudo. Un evento inevitabile quindi, ma non meno dirompente in termini di percezione del proprio ruolo da molti dei vari attori nazionali. Una serie di governi da esecutivi a bassa legittimazione sono divenuti governi di crisi e vi è stata una accelerazione del fenomeno della partecipazione distorta o “perversa”, cioè il balzo nel supporto a partiti di estrema destra, populisti e anti-sistema, grazie al ritorno al voto di protesta di fasce marginalizzate ed esasperate da una ulteriore recrudescenza della situazione socio-economica che hanno ritrovato voce in queste formazioni partitiche.
La concomitanza di tre diversi fattori di “stress”, la crisi globale, la crisi istituzionale dell’UE (ritardo nell’adeguamento della struttura istituzionale alle nuove politiche comunitarie ed al contesto internazionale) e la crisi di post-adesione ha rinvigorito nei nuovi stati membri componenti culturali e politiche nazionaliste ed anti-europee, le quali non si connotano solo in termini politici ma anche economici.
In Ungheria, uno dei paesi più avanzati nel processo di transizione, con un grado di apertura economica molto elevato, si sta assistendo se non ad un rigetto di una serie di istanze, certamente ad una presa di distanza composta con una serie di segnali preoccupanti in termini di tenuta dei valori democratici, dal processo di “europeizzazione” in senso allargato.
Prima una legge giudicata da molti osservatori nazionali ed esteri repressiva nei confronti dei mezzi di stampa e radio televisivi, poi l’approvazione ad aprile della nuova Carta Costituzionale con modalità ed elementi che la Commissione Venezia del Consiglio di Europa ha criticato definendole “rischio per i principi democratici” (in particolare il richiamo alla futura adozione di 32 leggi organiche per cui è richiesta la maggioranza qualificata dei due terzi per la legislazione attinente alle politiche fiscali, culturali, religiose, morali e socioeconomiche, nonché ai poteri del legislativo e della Corte Costituzionale), infine iniziative legislative limitanti l’indipendenza della banca centrale, elemento “simbolo” del successo della transizione ungherese coronata dall’entrata nell’UE nel 2004. Sul versante strettamente economico vanno segnalati il trasferimenti dei fondi pensionistici privati al bilancio statale e l’acquisizione di compagnie considerate strategiche. Va osservato che le dinamiche sopra richiamate non sono sufficienti da sole a spiegare questa escalation e certamente una parte non irrilevante è stata giocata dal ruolo catalizzante del partito leader della coalizione, il Fidesz, che gode di una maggioranza parlamentare superiore ai due terzi che gli permette di emendare o promulgare leggi anche costituzionali senza dibattito parlamentare, il quale si era fatto promotore già nella passata legislatura di centro-destra (1998-2002) di una serie di rivendicazioni ed iniziative controverse come la legge che estende una serie di diritti alle minoranze magiare presenti nei paesi limitrofi (Slovacchia, Romania). La Fidesz si è impegnata in un programma di radicale ristrutturazione delle istituzioni di riferimento del sistema economico, amministrativo, culturale e giuridico, con metodiche secondo gli osservatori tedeschi, particolarmente critici e preoccupati, autoritarie oltre che pericolosamente contigue allo spoil system, per non parlare della montante retorica anti rom ed anti-semita che rappresenta una delle caratteristiche distintive in primis di Jobbick il partito di estrema destra che è maggioritario nelle parti orientali più depresse del paese. Molto andrebbe aggiunto riguardo l’identità nazionale e culturale ed il ruolo della capitale, la eterogeneità culturale tra élite urbane ed il resto del paese. Ma al di là delle osservazioni più o meno evidenti sulle cause, resta , tuttavia, la domanda se l’Ungheria è un caso isolato o il sintomo di una nuova tendenza che potrebbe influenzare gli altri Stati, rafforzando così il fronte di coloro che desidera un rinvio sine die dei prossimi allargamenti dopo l’entrata della Croazia.
(a cura del Gruppo di Analisi di Informest)